L’umanità alla ricerca di un pasto caldo

Carolina è la più testarda di tutti, a prima vista. Lei sta pranzando al tavolo di fianco al mio, ogni tanto mi lancia uno sguardo e quando ricambio mi sorride e torna a guardare il piatto. A prima vista potrei dire che sia sulla settantina, ma potrebbe essere anche più giovane: il suo aspetto è provato da qualche dolore, i suoi capelli sono in disordine, gli occhi dolcissimi sembrano essere stati presi a pugni dalla vita. Penso sia la più testarda perché non c’è stato verso di farle misurare la pressione. “La prossima volta”, risponde.

Qui alla mensa della Caritas, più che per misurare la pressione, noi volontari della Croce Rossa ci veniamo a scambiare due parole, ad avvicinarci a chi ha meno di tutti, forse nemmeno un tetto. Veniamo a cercare di capire le storie e le situazioni, la pressione è quasi un pretesto per avvicinarci. Dal lunedì al venerdì, quasi 30 persone vengono a pranzare alla Tenda di Abramo, a Genzano di Roma. Oggi ci siamo fermati a mangiare anche noi, quelli con le maglie rosse, dopo che ordinatamente e in silenzio, quasi tutti si sono seduti davanti a noi scoprendo il braccio sinistro.
“Dottore come sono i valori?”
“Donato, non sono un dottore, sono un volontario”
“Mangi qui?”
“Mangio qui.”

È normale che ti trovi lo sguardo addosso di continuo, perché alla fine anche la tua storia è sotto osservazione: perché sei qui? ti fermerai? ti rivedremo ancora? e tu da dove vieni?
Ci hanno accolto tutti in modo molto semplice, anche i volontari Caritas che si alternano in cucina e a servire ai tavoli, tante persone silenziose ed operose che lavorano senza esposizione e senza riconoscimenti particolari. Sono 3 o 4 in cucina e altrettanti a servire, tutti i giorni. Un turno a settimana, vuol dire tante persone, senza clamore, con estrema umiltà, a fare servizio. E preparano un pasto da leccarsi i baffi, che divoro con appetito: oggi pasta patate e zucca, spuntature al forno, fagioli, frutta. Roba energetica, buonissima, che rinfranca corpo e spirito in questi giorni di gelo.
Appunto, il gelo: in questo periodo le situazioni critiche possono essere ancora più delicate: c’è chi vive in macchina e ha bisogno di un sacco a pelo, chi ha bisogno di una giacca più pesante.

Carolina non si chiama così. Nessuno dei nomi che faccio è reale. Quando vai sulla strada o alla mensa della Caritas, i poveri, gli emarginati, gli esclusi, gli invisibili, i vulnerabili, diventano Marco, Paola, Gianni, Giulio e Marinella. Le categorie diventano persone, quasi mai aderenti a stereotipi, e sempre le loro storie andrebbero protette, perché delicate e speciali.
Ce ne sono tante di storie, a sfamarsi attorno a me: chi cantava lirica, chi ha perso due figli nel giro di pochi anni, chi era paracadutista, chi è nato qui dietro e chi viene da lontano. Ogni storia ha un corpo e un peso, ha un odore più o meno forte, che ti resta addosso per ore. L’umanità vista da vicino ha il maglione scoordinato, il giubbotto nero con la forfora, una camicia che sarebbe ora di cambiare da giorni, i denti storti e la barba lunga. Ma l’umanità ti confida storie che avrebbero distrutto chiunque e lo fa con occhi teneri e sguardi che sembrano interrogarti. Si raccontano un pezzetto alla volta, per vedere se reggi, se accogli, se capisci, poi decidono se continuare o no. Quando mangi insieme condividi un tratto di vita, nessuno sta da una parte o dall’altra. È Marianna, a capotavola, che mi chiede come mi chiamo. È lei che mi fa le domande, è lei che decide se raccontare un po’ di sé.

In un luogo del genere nessuno ti chiede di entrare, sei tu che ci entri. E lo fai se ne hai bisogno. È un luogo pieno di dignità, ma ognuno ha la sua, ognuno la sistema come si sistema una giacca stropicciata che vorresti aver stirato prima. Ognuno la indossa come può. Caterine si distingue dagli altri perché è vestita bene, ha modi educati, e ha una bimba di sette mesi. Una bimba serena, in salute, con gli occhi grandi e curiosi, che non ha mai pianto, che squadra tutti ma non ti concede un sorriso. Con le mie smorfie posso vantarmi di aver strappato una risata a decine di bimbi: a lei no, ha resistito seria e concentrata, e mi sono sentito un buffone qualunquista. Quando la mamma l’ha cambiata, tutte le donne e gli uomini presenti si sono fermati ad ammirare quell’amore che si era materializzato sul tavolo di legno, hanno forse pensato alle loro mamme, o ai loro figli, e per pochi secondi nessuno ha fiatato più. Se fosse stata maschio, e se fosse stata bianca, sarebbe stato un presepe.

Carolina, la più testarda, il giubbotto non lo porta nemmeno quando deve andar via: “Non mi serve, ce l’ho a casa ma non lo metto mai, sto bene così”. Eppure fuori ci sono 4 gradi a mezzogiorno e lei ha un manicotto dove infila le mani per tenerle al caldo, e non lo molla mai. Un manicotto con le orecchie da gatto, gli occhi e tutto, che sembrerebbe infantile per una dodicenne, ma che a lei sta meravigliosamente. Mi accorgo che cammina curva, a braccetto del compagno.
“Io almeno una giacca ce l’ho, a casa”, dice, “pensa tutti quei poveracci del terremoto, invece”. A quale terremoto si riferisse, non so. Forse a nessuno in particolare, forse a nessuno esistente. Ma mi ha lasciato muto, lo stesso.