La mia fiaccolata a Solferino

Solferino si è fatta sentire per la prima volta quando all’autogrill qualche maglietta rossa ci è venuta incontro e… “Ciao compa’! Dove andiamo lo sappiamo già, ma da dove venite? Buon viaggio, ci vediamo dopo!” oppure quando lungo la strada per il campo un volontario sventolando il suo badge “valà, ce lo date un passaggio fino alla Ghisiola?”. In queste due notti ho imparato che in una tenda da cento persone non c’è bisogno di mettere la sveglia, perché tanto la mattina ti svegli per la “cagnara” che fanno gli altri. Ho imparato che se hai le salsicce ignoranti e la porchetta, oltre a te devi pensare almeno ad altre due o tre persone. Che fai, non offri qualcosa al vicino di tavolo, di letto e di risate in una grande famiglia? Eh.
In 12 chilometri di fiaccolata ho scoperto che non importa se non conosci chi ti passa accanto, quando ti tirano per un braccio per ballare, per fare il trenino o per scattare una foto, tu vai. Il sorriso è un linguaggio universale, che tu sia italiano, finlandese, tedesco, croato, hondureno, spagnolo, serbo, portoghese, americano, kazako, giapponese… Durante questi 12 faticosi chilometri di camminata tra le colline lombarde ho sperimentato la sensazione della cera calda che ti cola lungo una mano e ho pensato che in fondo in fondo per diffondere le cose che meritano di essere diffuse non ci vuole poi così tanto: una volta accesa la prima fiaccola tutto il resto viene da sé, chi è davanti, dietro o di lato si gira e porge il suo fuoco agli altri. È un effetto domino. A Solferino lungo quei chilometri si sono svolti degli eventi storici di grande importanza, lì grazie a Henry Dunant è nato un ideale che non si è più arrestato, una scintilla che nel mondo ancora vaga. Quando si vuole vedere la forza dell’umanità e la bellezza rossa e bianca, bisogna andare a Solferino. Tutti fratelli. Ebbene sì, tutti fratelli!

Eleonora, Volontaria nel Comitato dei Comuni dell’Appia