L’uniforme che mi metto e quella che mi tolgo

Forse voi non ci crederete, ma quando indosso l’uniforme della Croce Rossa Italiana divento un po’ diverso. Sono sempre io, ma un po’ diverso. Sarà perché non la indosso tutti i giorni, quindi non mi ci abituo mai troppo.
Quando mi metto l’uniforme, di solito ho fretta di raggiungere gli altri: un volontario solitario o sta per iniziare o ha appena smontato, da solo non fa nulla. E io cerco sicurezza: avere un’altra maglietta rossa accanto ti fa sentire cento volte più sicuro; indossare l’uniforme mi ha insegnato l’importanza della squadra.
Noi rimaniamo tutti padri, madri, figli, commercianti, impiegati, salumieri, insegnanti, studenti, fornai, meccanici, disoccupati e camionisti. Siamo popolo che resta popolo, ma si trasforma un po’.

Muoversi per la città con l’emblema addosso vuol dire avere sguardi per tutti e lo sguardo di tutti. Significa che stai un po’ più vigile e attento a quello che ti succede attorno e che se da un momento all’altro qualcuno nei paraggi avrà bisogno, stai sicuro che ti verranno a chiamare sulla spalla. Io ho sempre un po’ timore di momenti simili: non sono un dottore, né un infermiere, sono quanto di più lontano da quei mondi lì. Come potrei reagire in momenti di emergenza?

Certe volte mi chiedo se mi merito l’uniforme: quanto ammiro chi ha fatto altri percorsi, vorrei anch’io aver studiato per saper curare un bambino, ma la vita mi ha fatto fare altro e io so fare altro. Allora mi ricordo che con l’uniforme rossa io faccio quello che so fare, perché non tutti i volontari sono uguali. Con l’uniforme addosso accolgo e raccolgo storie, mi inzuppo di umanità e sto ad ascoltare tanto. Cerco di tirar fuori una battuta in più e far fare una risata a chi mi sta vicino. Certe volte il servizio consiste proprio in quello: stare lì, esserci, strappare un sorriso, ascoltare, osservare. Mettersi l’uniforme per questo? Sì, anche per questo.

L’uniforme non ha un mantello per volare. Non è una vita da supereroi col costume sotto la camicia, non è quasi mai una vita d’azione. Ma è una vita di presenza. Qualche volta si portano pesi: quelli fisici, degli scatoloni delle raccolte, una tenda o i pezzi di un gazebo; o quelli immateriali, le storie delle persone che cercano di stare meno sole e si arrangiano come possono. Quando torno a casa e l’uniforme me la tolgo, la metto a lavare perché tutta quella umanità non le resti attaccata troppo addosso e non l’appesantisca. La voglio fresca e leggera per il turno successivo.

L’uniforme non te la togli mai completamente. Succede che ti vengano a chiamare anche quando non la indossi, perché qualcuno ha bisogno. E tu vai, perché forse da quando l’hai messa la prima volta, poi non te la togli più. Bimbi col capogiro, anziani dal passo incerto: persone. Ti chiamano perché si fidano, e perché ci sei. Ti chiamano perché sei tu, anche senza uniforme: il regalo che l’uniforme ti ha lasciato è come sei diventato adesso.

Così capisci anche come rispondere alla domanda di prima: come potresti reagire ad una chiamata? Semplicemente prendi e vai.

L’8 maggio è la Giornata mondiale della Croce Rossa, di tutti quelli che rispondono, volontariamente, responsabilmente: di tutti quelli che mi stanno insegnando ad essere così, giorno per giorno. La festa di tutti quelli che salvano, scavano, rianimano, corrono, raccolgono, insegnano, imparano, proteggono, ricongiungono, accolgono, cucinano, montano, smontano, accompagnano, ascoltano, osservano. Sono presenti.

Carlo, Volontario nel Comitato dei Comuni dell’Appia